venerdì 27 aprile 2018

Sepellitemi con il mio gatto

Roberto Perusi
SEPELLITEMI CON IL MIO GATTO
A Pinuccio, Camilla e Dino che l’hanno generato e ha tutti i gatti di questo mondo.
Ad Alba che mi ha fatto conoscere il loro meraviglioso mondo.
Prefazione
Ho vissuto la giovinezza con un “cuore di pietra” (come mi ripeteva ogni tanto mia madre) rifiutando scientemente dolore e sofferenza (che la vita per forza di cose, ti propone quasi quotidianamente), ma anche con l’aiuto di alcool e droghe.
Ora non più. Il buddismo e lo yoga hanno aperto un mondo dentro di me che voglio esplorare per capire come mai sono ciò che sono, in poche parole acquisire consapevolezza.

17 marzo 1998
Oggi mi sono alzato stanco e confuso, ho fatto la solita doccia nel frattempo che aspettavo il suono a me caro che produce il gorgoglio della caffettiera, sorseggiato il caffè e con indolenza ho aperto il diario di turno (ho sentito dire che scrivere è terapeutico) e, non sapendo cosa scrivere ho scritto:
“oggi ho voglia di scriverti ma non so cosa dirti, sono stanco e confuso............”
.... così, per neutralizzare questo circolo vizioso ho messo mano al progetto di un racconto autobiografico illustrato.
Parlerò di me, dei miei affetti, delle mie lune, delle sbornie e di tutto quello che in un modo o nell’altro, di banale ed eccitante, uno fa nell’arco di una giornata o di una vita.
Non ho idea di come questo “libro” sarà strutturato, anche se dovrei farmene una (penso che funzioni così il mondo degli scrittori): L’ho chiamato inizialmente, “Fantavita” (fantasie di una vita) per distinguerlo dalla miriade di documenti presenti sulla mia scrivania e, come sottotitolo “eehhh che cazzo” in onore di Fabio che se ne uscì con questa esclamazione appena udì il titolo.
Lo dedico ai miei genitori: a mio padre, dal quale così tanto avrei potuto imparare se solo lui lo avesse voluto e a mia madre  che con umiltà e senso della famiglia non lo ha mai abbandonato. Grazie.
PARTE PRIMA…naqui…
LA CASA DOVE SONO NATO
Sono nato in casa, con una grande cucina, un tavolo di legno rettangolare al centro della stanza, un camino abbastanza capiente da potermi contenere in piedi fino a 10 anni e un secchiaio “de piera de Prun” in un angolo dove, tutti i sabato mattina, mia madre mi issava con forza, mi spogliava e mi lavava in un ampio catino. 
Un nonno impietrito seduto a capotavola con giacca sciarpa e sguardo perso nel vuoto faceva da
corollario all'ambiente. 
Era una casa molto grande, su 3 piani, più soffitta e cantina. Nella cantina c’era il laboratorio di falegnameria del nonno (poi trasformato in taverna), al piano terra l’ufficio, la stanza delle "casse da morto" (come le chiamavamo noi) e il laboratorio di mio padre; al primo la cucina e il soggiorno; al secondo piano le camere da letto e in soffitta il mio rifugium peccatorum e …la soffitta

La cantina - in cantina mio nonno Domenico, detto “el cioeto” ci lavorava. Era, come si direbbe oggi, un imprenditore. Costruiva bare, alcune molto belle e costose con gli intarsi fatti a mano (conservo ancora una zampa, intagliata da mio padre, che faceva da sostegno alla bara), altre lisce e senza fronzoli, quelle “per carità”. Erano fatte di compensato, per quelli che non avevano il becco di un quattrino e per essere seppelliti ci voleva l’intervento compassionevole del nonno all’unisono con quello del comune di Negrar
Il mio nonno: l’essere più buono che ho mai conosciuto e con il quale ho trascorso la mia infanzia. Tutte le estati facevo le vacanze con lui in una località a 1000 metri sul mare, sui monti Lessini: Fosse, all’albergo Benedetti, i giorni più belle che io ricordi, non solo per le lunghe e istruttive vacanze con il nonno ma per tutti gli amici (e amiche) che in quelle circostanze conobbi.

A casa dormivamo insieme, dapprima in un lettone poi in due lettini separati ma sempre in camera insieme. Prima di dormire mi raccontava le sue storie di quand’era giovane e il mattino appena sveglio trovavo sempre 100 lire sul comodino.
La cantina era una vera e propria falegnameria, con il rumore infernale che fanno le macchine quando sono in funzione. L’odore del legno imperava, i trucioli la facevano da padrone, la segatura era di casa e l’aria era impregnata di acqua ragia. In fondo a destra, da una scaletta in legno, si accedeva ad una finestra a nicchia sempre chiusa a chiave dove mio padre, da buon bevitore, ci teneva il vino, quello più buono. Sul lato che dava sulla strada un’apertura a “bocca di lupo” dava luce al locale e nel contempo era usata per far passare il legname per le ultime dimore degli umani che non erano più tali perché privi di anima.
Una volta realizzata la struttura della “cassa da morto” con fregi, medaglioni, massicce zampe di leone a sostegno della stessa ed un enorme crocifisso al centro del coperchio (che cambiava a seconda della disponibilità economica della famiglia), la si portava, per l’ulteriore lavorazione, al piano superiore: il magazzino.
Nella “stanza delle casse da morto” in alto c’era una piccola immagine di S. Antonio che, con un lumino alla base, rischiarava di luce sinistra la stanza, proiettando le ombre delle bare in un oscuro infinito. Mi incuteva, al tempo stesso, timore e coraggio: timore per le bare, coraggio per la sfida con la paura che dovevo sempre sostenere se vi volevo accedere ed io lo volevo sopra ogni cosa.
Era qui che si facevano le rifiniture, con fodere, pizzi e cuscini (tutti rigorosamente viola), incollati e inchiodati per poter resistere fino alla calata della bara nella buca del terreno. A questa seconda fase di lavorazione eravamo addetti io e mia madre, qualche volta, brontolando, anche mio padre: un’impresa decisamente familiare.
Non mi piaceva questa fase della lavorazione delle bare perché mi sembrava mortificante (avrei potuto dire umiliante ma, per rimanere in tema di morti, ho scelto il secondo aggettivo) ma non mi sono mai tirato indietro. Sempre per l’emerita ditta “Onoranze Funebri Perusi” (di cui un cartello, verde oliva, ricordava ai Negraresi e agli ignari passanti la sua esistenza, attaccato in bella vista alla ringhiera del balcone di casa al primo piano) ebbi anche altre mansioni: attacchino di manifesti, navigatore sul carro funebre, ritiro delle salme al loro domicilio, consegna (con aria contrita), agli intervenuti alla cerimonia, dei biglietti di ringraziamento all’arrivo della bara sul sagrato della chiesa.

Col passare degli anni e di cadaveri ho maturato l’idea che lavorare per dare una dimora ai cari estinti non fosse così disdicevole e, fatte due considerazioni sul tempo e il ritorno economico, mi proposi come naturale continuatore dell’attività. Mio padre non acconsentì ne allora ne mai, adducendo al suo diniego che bastava lui ad occuparsi dei morti, che non sapevo quello che dicevo e che non voleva che suo figlio facesse lo sporco lavoro che faceva lui e che un giorno l’avrei ringraziato. Fosse stato più lungimirante e non avesse detestato il suo lavoro altro che fare il “becchino”. Così prima di passare a miglior vita vendette l’attività ad un amico e dopo pochi anni ne assunse il controllo il figlio Alberto (sosia di Brad Pitt), riuscendo a risollevare l’azienda e portandola in poco tempo ad essere una delle prime realtà di gestione dei morti dalla A alla Z. Il suo motto era: “sepelemodetuto.it.
La cantina/falegnameria negli anni cambiò destinazione d’uso, diventando una bellissima taverna, affrescata niente meno che da Milo Manara, il fumettista che a quel tempo abitava a Negrar e credo flirtasse con ma sorella.
Non ho tenuto il conto delle feste in quella taverna ma furono veramente tante come tanti erano gli amici che vi partecipavano. Le organizzavo quando i miei genitori non c'erano, in modo da poter accedere indisturbati anche al piano di sopra: la stanza delle bare che tra gli ubriachi riscuoteva un grande fascino. Ricordo una per una le ragazze, le macchine parcheggiate nella piazza, la gente del paese che spiava dalle finestre, la gioia e la frenesia che s’impadronivano di tutti noi presi dall’accoglienza degli ospiti. Rammento gli amici che, di volta in volta vi partecipavano e le solenni sbronze a cui le mura di quel luogo hanno assistito. Più di una volta finite le scorte forzavamo la mitica finestra dove mio padre custodiva il Recioto e, senza alcun pudore, scolavamo tutto ciò che quella cassaforte a muro conteneva, con la benedizione del santo dalla stanza di sopra e le maledizioni di mio padre allorchè scopriva l’ammanco.

Ai margini di una di queste festicciole mi accadde un fatto da business dei primati. In un pomeriggio inoltrato portai una signorina, accondiscendente, in “camporella” con la mia mitica 2CV. Erano le prime Citroen che si vedevano in giro e la mia era degli anni 50: essenziale. Per poterci salire le ragazze dovevano capitolare senza se e senza ma (quand’ero ragazzo funzionava così, una ragazza di Colà di cui mi ero invaghito mi diceva sempre che solo se l’avessi fatta guidare avrei potuto, nel frattempo, fare di lei quello che riuscivo a fare mentre guidava). Sta di fatto che la ragazza per timidezza o per paura mi fece andare lontanissimo dal centro abitato. Trascorsa una buona mezz’ora di zero presenze umane decisi di fermarmi in un’ampia curva di una strada sterrata. Nel cercare di entrare nello spiazzo, per passare ai fatti, non mi accorsi che sul ciglio s’era formato un dosso talmente alto che la macchina, appena le ruote anteriori l’ebbero superato, si bloccò appoggiandosi sui longheroni sottostanti: Non si riusciva ad andare ne avanti ne indietro. Le ruote non toccavano terra e per quel poco che toccavano non gliela facevano ad agguantare la terra e riportarci fuori. Restammo ha provare non so quanto tempo finche non mi venne una l’idea tanto folgorante quanto idiota.
Premetto che la 2cv aveva la frizione centrifuga (così si diceva allora): da ferma, col motore acceso, la marcia ingranata e la frizione staccata rimaneva immobile come un “ciao”. Dissi quindi alla mia partner di mettersi al volante (ovviamente poi si seppe che non aveva la patente) con la retro inserita e mentre io, dall’esterno avrei spinto indietro lei, in contemporanea, doveva dare quel poco di gas sufficiente a far sì che l’auto superasse il dosso. Aggiunsi anche che, per meglio farle comprendere il meccanismo, appena fuori dal dosso togliesse il piedino dall’acceleratore e lo ponesse sul freno pigiandolo con tutte le sue forze: Semplice e chiaro.
Non fu così: non avevo tenuto conto della sua ignoranza in fatto di auto, e di 2CV in particolare, e del fattore emotivo che avrebbe giocato un ruolo fondamentale. Appena la macchina aggredì il dosso con le ruote anteriori e si liberò dalla trappola in cui era stata cacciata, la ragazza, presa dal panico, pigiò sì ma sull’acceleratore. A quel punto più io tiravo a me più lei premeva sull'acceleratore e la macchina indietreggiava poco a poco ma inesorabilmente. Una lotta impari: io contro la macchina e la sciagurata che era al comando. Cercai di oppormi con tutte le mie forze alla potenza della 2CV, ma quando vidi che si stava lentamente avvicinando al ciglio della strada, mollai tutto e non so con quale coraggio mi tuffai nell’abitacolo ma ci finii sopra. Troppo tardi: iniziò la rovinosa caduta giù per i prati e ottenni solo di ruzzolare insieme alla disgraziata e alla macchina. Ci fermammo dopo non so quante capriole. Ricordo ben poco se non che ad un certo punto mi sono ritrovato in piedi sul tettuccio della macchina. Continuammo a rotolare, rotolare finche la 2CV con un ultimo clangore si fermo dritta sulle 4 ruote. Nessuno si era fatto male…o quasi: lei dei piccoli graffi qui e là, io nulla e la macchia sembrava disossata da quanto era storta ma in piedi
Tra una cosa e l'altra ce ne andammo che era buio. Della ragazza non ho più avuto notizie.
Il giorno dopo sono tornato con mio padre, ho raggiunto faticosamente la macchina, sono salito al posto di guida e, infilata la chiave….vvroomm è partita. Meravigliosa 2CV!!!

Al piano terra un ufficio dove mio padre e qualche volta anche il sottoscritto (per imparare il mestiere) s’intratteneva con i clienti, il più delle volte affranti dal dolore (atteggiamento al quale ci si doveva attenere, date le circostanze), proponendo loro modelli di bare che si ritenevano più adatte al loro rango sociale o ai soldi che tenevano sotto il materasso.
Non era insolito, per i meno abbienti, proporre un baratto o ancora peggio un “pagherò” che il più delle volte finiva per rivelarsi un credito inesigibile: un frigorifero per una bara, la stampa degli avvisi da morto per qualche gallina e il servizio funerario per una capra o poco più. Mio padre che di fondo era buono e compassionevole accettava non senza tirare qualche “moccolo”.
Negli anni mi sono accorto di quanto malvolentieri mio padre facesse quel lavoro e quanto male gli facesse il dover assumere atteggiamenti tristi, non consoni alla sua personalità, allegra e burlona. Tutto ciò ha intaccato la sua stabilità emotiva (come direbbe Fano) portandolo al bere: spesse volte lo andavo a recuperare per cena in qualche bar del paese dove lo beccavo sistematicamente sbronzo.
Una porta collegava l’ufficio con una stanza che fungeva da magazzino (la stessa dove si confezionavano le bare e ci si allargava durante le feste). Alle pareti, appoggiate su grosse zanche, una decina di bare (3 per ogni parete) in mostra per i parenti che potevano “toccare con mano” l’oggetto che sarebbe diventata la dimora del caro estinto.
Da questa funerea stanza si accedeva ad un’altra stanzuccia che di funereo aveva ben poco: il piccolo laboratorio di mio padre, il suo regno incontrastato, il suo rifugio, forse la salvezza al maledetto lavoro cui suo padre e i tempi l’avevano aggiogato.
Qui dipingeva, intagliava il legno e compiva tutte le sue alchimie con colori, aneline e polverine varie (ne ho ancora qualcuna a casa). C’era, il divieto assoluto d’accesso ma io per curiosità o meglio per “principio” lo violavo metodicamente (bastava dirmi che non potevo fare una cosa per avere la sicurezza che l’avrei subito fatta). Qui ho trascorso dei bellissimi  momenti, curiosando insaziabile quando lui non c’era, o ascoltandolo affascinato le rare volte che mi dava consigli e suggerimenti su i più svariati argomenti. Ad oggi riconsiderando i fatti e le sue magiche mani credo di aver avuto un grande maestro senza mai aver avuto la possibilità di rendergliene merito e soprattutto rendermene conto.

Al primo piano c’era la cucina dove si trascorreva gran parte della giornata e per la quale i ricordi sono meno vivi. Con mio nonno impietrito seduto a capotavola, con sciarpa, cappello e sguardo perso nel vuoto. Dietro c’era un’altra stanza dove facevo i compiti e all’occorrenza camera da letto e, ancora dopo, proprio sopra al laboratorio di papà, un’ultima stanzetta che faceva da cucinino. Da qui il panorama era mozzafiato (nel vero senso del termine) giacchè pochi metri più sotto c’era una sorta di raccoglitore di acque di scarico dove spesso e volentieri dei grossi ratti giravano indisturbati in cerca di cibo.
L’appartamento accanto al nostro era abitato dalla “Bieta”, una vecchina che stava quasi sempre da noi e quasi tutte le mattine mi preparava l’uovo sbattuto che io, regolarmente rifiutavo per un senso di repulsione che mi dava quel cibo preparato da mani così vecchie e nodose. Ancora non sapevo quanto ero fortunato.

Al secondo piano le camere da letto: per mia sorella la più piccola ma molto graziosa che, in origine, era la cucina dei nonni (è da qui che, il giorno di Santa Lucia, mia nonna Adele ci faceva prendere degli spaventi non da poco accostandosi ai vetri smerigliati della porta con uno scialle verde sulle spalle e, sibilando parole incomprensibili, ci faceva scappare a gambe levate giù per le scale); poi quella dei miei genitori con bagno adiacente e infine la più grande dove dormivamo io e mio nonno.
Era una camera grande, con pavimento in piastrelle di ceramica, due letti e un vecchio armadio ai piedi del letto dove, il nonno ci nascondeva soldi e cioccolato e che io, ogni tanto sgraffignavo (sia l’uno che gli altri).
Povero nonno chissà se mai se ne accorto e mi lasciava fare per quieto vivere. Tutte le mattine al mio risveglio trovavo sempre 100 lire sul comodino e la sera, prima di dormire, mi raccontava le storie più strambe sulla guerra (quella che lui aveva vissuto) o su qualsiasi altro episodio della sua infanzia sino a quando non mi addormentavo. Io non gli sono mai stato riconoscente. Altri tempi, altra vita.
Oggi spesso lo invoco che mi protegga come faceva quando ero un bambino e dormivo con lui.
Il bagno, inesistente fino a pochi anni prima, era stato ricavato sopra il cucinino che a sua volta stava sopra il piccolo laboratorio di mio padre. Per accedervi bisognava, per forza di cose, passare dalla camera da letto dei miei genitori che non sempre dormivano. Una volta successe quello che prima o poi doveva accadere: sono entrato che stavano facendo l’amore. Onde evitare si ripetesse l’accaduto, di ritorno dalle mie nottate alcoliche, andavo a pisciare in un piccolissimo cesso che stava come incollato sul retro della casa a 15 metri di altezza e al quale si accedeva da una porta e una rampa di scale consumate dalla gente che nel corso di decenni v’era transitata.
Superata quella porta faceva un freddo glaciale. Erano le scale che conducevano al più grande e bel luogo della mia infanzia: la soffitta, dove ho vissuto i più bei momenti della mia trasandata vita e a ben pensarci è stato in questa casa ed in particolare nella soffitta che ho vinto, come tutti i bambini, la paura del buio.

Al terzo piano c’erano le soffitte, il mio regno. Mi ero rimesso a nuovo una piccola stanza, ex camera da letto dei nonni, tutta per me dove con gli amici facevamo di tutto un po'. E’ qui che ho perso la mia verginità con Anna la zoppa. Era già bella di suo, la stanzetta, ma dopo che ci misi le mani diventò ancora più bella: affrescai pareti e pavimento, dipinsi di tutto dai personaggi di Alan Ford, Superciuk e il numero uno, fino a dei collages con foto e disegni. Sul lato rivolto a sud si aprivano due abbaini che spaziavano sulla piazza sottostante da dove si poteva controllare tutto il movimento, soprattutto l’andirivieni dal “bar dal Tabari” dove lavorava la nostra acerrima nemica: la Petanta. A terra c’era un materasso, libri e riviste appoggiati ovunque e, per chi avesse voglia di cercare, tutto l’occorrente per farsi le canne. Usciti da quella piccola stanza si accedeva alla soffitta vera e propria. Una grande stanza dove c’era di tutto ma soprattutto ricordi di mio padre da fanciullo.

Il bar sottocasa era uno dei più frequentati del paese, con un biliardo che era il vanto del padrone: “el Nino tabari”. Una parte delle mie giornate e delle mance di papà finivano li, in scommesse su partite giocate tra me e il “marchese”, un compagno di classe che non ho mai battuto in tutta la mia lunga carriera di giocatore di biliardo. Mai.
Nel bar il più delle volte ci lavorava la cognata del titolare, la su menzionata Petanta, e credo fosse li non tanto per guadagnarsi la pagnotta ma per invidia (dalla quale era rosa e che la portava ad essere una persona odiosa). Lavorando al bar, pettegola com'era sapeva tutto di tutti ed anche di fatti inesistenti che lei inventava per la malvagità che la contraddistingueva. Anch’io sono finito sotto le sue grinfie (mi chiamava marchetta, tanto per dire) al punto che ho smesso di frequentarlo. Più avanti, quando mi si è presentata l’occasione, sono immigrato in altre terre, togliendomi però prima la soddisfazione di scrivere e affiggere un manifesto (scritto a 4 mani con l’amico Gian) appena fuori dalla chiesa, in modo che tutti lo potessero leggere. Iniziava con: “Negraresi di merda”. Che soddisfazione! Il bello è stato che nessuno è mai riuscito a capire chi fosse stato a scriverlo, facendo così nascere le congetture più disparate: dai comunisti ai gay fino a qualche comune vicino invidioso di Negrar.

A proposito della suddetta Petanta (non ho mai saputo il perché del soprannome) un giorno, al suo bar ordinai, strano per me, un bicchiere di latte. Lei, prima di servirmelo, ha cincischiato col bicchiere sotto il bancone e dopo qualche istante, appoggiandolo sul banco mi ha sfidato dicendomi “dai perusi beelo se te ghe coraio”. L’ho guardata perplesso e mi sono rimesso a parlare con gli amici lasciando il bicchiere col suo contenuto lì, dove lo aveva appoggiato. In quel momento usciva dalla porta di servizio il nipote Giancarlo, di qualche anno più giovane di me, che tra il lusco e il brusco ha preso il bicchiere ingollandolo d’un fiato (pensando fosse li per lui) e lasciando me, la Petanta e tutti i presenti di sasso. Non vi dico quello che ha fatto (o a finto di fare) per scongiurare il malocchio che, a sua detta, mi aveva fatto versando una polverina nel latte.

Ma torniamo alla casa della mia felice infanzia dove ho vissuto serenamente la prima parte della vita: la casa ”en piasa”. Qui ho trascorso i miei primi 20 anni ed è il luogo dove, in assoluto, sono stato più felice e i cui ricordi tutt'ora mi accompagnano.
Di questo periodo ricordo le estati a Rimini con mia madre e mia sorella (papa ci accompagnava e poi se ne tornava a casa per via dei morti), le vacanze col nonno e le lunghissime camminate con lui che mi incitava con dei “capina, capina”, la canonica, Don Angelo, io che facevo il chierichetto, i tuffi sul sagrato della chiesa per due confetti, le estati nei boschi a giocare con gli amici, le fughe da casa nei pomeriggi assolati per raggiungere qualche amico e andare all’avventura, la caccia ai topi nel progno, le fionde fai da te, le battaglie contro San Peretto con lance di legno e archetti di “marelle”, la maestra Busselli, il maestro Gelso, Le medie dalle suore, le bacchettate di suor Imelda che ci faceva lezione in piedi sulla sedia, i calci negli stinchi dal maestro Recchia, proff. di ginnastica e ancora le corse in bici dietro l’autobus che portava le ragazze, i primi innamoramenti, Nadia e le sue amiche, il giorno della passeggiata al “Vaio de Castel” dove ho visto le mutandine a una di loro, le scuole, dall’asilo fino all’università di Venezia, la calata a Verona per le scuole superiori, le bocciature, la ripetizione del terzo anno, le bigiate a scuola, altri innamoranenti, Renata, Maurizia, Renzo Manni e le spaventose ubriacate con gli amici di Borgo Roma, l’impegno per il diploma, le pere, il matrimonio, la ricalata a Venezia che lasciai, haimè, dopo sette anni e senza prendere la laurea per amore di una donna che avrebbe segnato l’inizio della mia nuova vita.


All’età di 17 anni, al terzo anno dell’ITIS, venni bocciato per aver superato il tetto delle 200 ore di assenza, non per malattia ma per le bigiate a scuola. Una notevole influenza l’hanno avuta le ragazze e il mitico “bar pace” ci ha messo del suo. Era un bugigattolo alla cui estremità si apriva un lungo corridoio che dava in una saletta con juke box. Lì, tutte le mattine, ci si trovava tra futuri periti, maestre, commercialisti, artisti e quanto altro offriva piazza Cittadella e dintorni in ambito educativo e si decideva il da farsi. Poteva essere una gita sul lago, giri di lento al bar “Al Camitetto” sulle Torricelle che apriva apposta per noi, o un salto a casa di Renzo a fare due chiecchere con le ragazze che facevano berna con noi. Iniziarono in questo periodo i miei innamoramenti e non furono pochi. Cito solo quelli che per un verso o per un altro anno lascito un segno.
Maurizia: bella, impertinente e impavida. Era di una bellezza paurosa, mora, occhi verdi, labbra sempre imbronciate e matta come un cavallo, non a caso faceva il Liceo Artistico. Ultimamente m'è venuto lo sghiribizzo di cercarla in rete ma, ovviamente, con pochi risultati: solo una vecchia foto con i suoi compagni di liceo dove lei, nel gruppo, risplendeva.
Cristina la medium: non era bella, era un tipo. Camminava su due trampolini di sughero di 20 centimetri e più di una volta rischiò la vuta cadendo da quell’altezza. Col tempo mi sono accorto che raccontava un sacco di frottole ma talmente ben confezionate che sembravano vere. In uno delle sue narrazioni mi disse di aver incontrato, per caso, un grande regista che l’aveva scritturata e/o coinvolta in un film che stavano per girare in zona. Per essere più convincente mi portò nella villa che diceva (lei) il regista aveva affittato per quella produzione e, cosa strana, tutte le volte che ci andavamo i cancelli erano sempre spalancati e all’interno non c’era anima viva. Ci si metteva ad aspettare ma non s’è mai visto nessuno se non qualche animale e dopo un po’ mollavamo il colpo. Solo adesso che lo ricordo mi rendo conto della stranezza. Era tutto costruito ad hoc, sopraluogo in villa compreso. Certo che ne perdeva del tempo e ne aveva della fantasia. Per dimostrare cosa? Per fare che? Non lo sapremo mai o forse era il suo super super ego.
Aveva anche delle capacità medianiche. Più di una volta ci siamo messi intorno ad un tavolo con degli amici e il famoso piattino. Bastava che lei avvicinasse le mani alla porcellana che si metteva letteralmente a volare, rispondendo in maniera impressionante alle domande dei partecipanti alla seduta.
Andavo regolarmente a casa sua, contravvenendo la volontà dei suoi genitori per i quali non ero bene accetto, ma si sa a quell’età più ci proibiscono più ci sentiamo stimolati.
Tutte le volte che ci si vedeva si finiva a letto, (si sà che il testosterone a quell’età…) finchè fatalmente rimase incinta. Fu drammatico: dapprima lo voleva tenere, poi non lo voleva più, e ancora si e poi no e giù tisane, prezzemoli e prezzemolini. Venne alla luce una femmina, Francesca che, con la velocità con cui arrivò, se ne andò: mori dopo tre mesi senza mai aver avuto la possibilità di vederla.

Pochi tempo dopo un'altra morte amareggiò la mia vita. Il mio compagno di banco e migliore amico, Ermanno detto “el ciodo” per la sua estrema magrezza, annegò sotto i miei occhi. Eravamo al lago io lui e il mio omonimo detto “el Damon”. Era estate e prendemmo un moscone per andare al largo a fare il bagno. Era una giornata (in)perfetta per morire: eravamo felici e bagnati dall’acqua che attenuava la calura estiva. Tutti sapevamo nuotare o per lo meno credevamo fosse così, e allora ebbero inizio i tuffi e si faceva a gara a chi si buttava da più in alto, arrampicandoci sulla spalliera della seduta del moscone. Era bellissimo. Tuffarsi, fare due bracciate, risalire e tornare a tuffarsi. Solo Ermanno era fermo, calmo ma per quell’età e quel giorno poteva anche starci. Fece il primo tuffo, andò giù e non torno più a galla. Lo vedevamo dibattersi a pochi metri da noi che quasi sembrava lo si potesse toccare. Facemmo di tutto e di più ma continuava ad allontanarsi muovendo gambe e braccia finche non lo vedemmo più. Lo ripescarono la sera irriconoscibile.
Ci ho messo del tempo per digerire la cosa, anche perché i suoi genitori, ovviamente, non si sono mai convinti delle nostre buone intenzioni per cercare di portare a galla il loro figlio. Li capivo.

STORIE DI DROGA E DI COLTELLI

Non tutto andò come previsto o meglio come prevedevano i miei genitori e, nell’arco dei primi trent’ani, accadero fatti che nessuno si sarebbe mai aspettato soprattutto i miei genitori che nutrivano, per il loro figlio maschio, speranze ed ambizioni. Dai 20 ai 30 anni fu un vero inferno e solo quando la mente fu sull’orlo della pazzia e credetti arrivata la mia ora passai alla seconda parte della mia vita e rinacqui.

Tutto ebbe inizio qualche giorno prima il matrimonio con Marina Sembeni De Sandrà (così la chiamavano gli amici). Entrambi curiosi e temerari ci imbattemmo, in un pomeriggio assolato in cerca di hashish, in un pusher detto “el pito” (per il collo lungo che lo faceva assomigliare ad un tacchino), che ci offrì del magico “brown sugar” al posto della ormai barbosa “maryuana”. Accettammo la busta un po’ attratti dagli oppiacei e il giorno stesso facemmo la stupefacente esperienza che ci oscurò l’esistenza da lì a dieci anni a venire. Devo dire che entrambi, per diverse strade avevamo già esperienze pregresse con l’uso di droghe leggere (per mantenrci il vizietto ogni tanto si faceva un salto a Bologna dove un hippie/pusher ci passava della maria molto, ma molto buona che, a nostra volta vendevamo sulla nostra piazza) e il passaggio all’eroina fu, per noi, quasi scontato. Marina inizialmente aveva il timore di bucarsi, fui costretto a “bucarla” io. Fu un disastro, inesperto qual’ero feci fatica a trovare la vena col risultato che metà liquido fuoriuscì sottopelle causando un ematoma che si estendeva su quasi tutto l’avambraccio. La parte tragica della stupefacente esperienza del “buco” fu che dovendoci di li a poco sposare era assolutamente improponibile farlo con quell’enorme macchia sull’avambraccio, ragion per cui dovette, tra lo sbalordimento di sua madre, modificare il vestito di nozze per celare l’inopportuna macchia rossastra. Dopo tanti anni ho maturato il convincimento che ci sposammo da sconsiderati come fosse un gioco e lo facemmo contro tutto e tutti. Per dire, Il giorno del matrimonio in macchina con l’amico Piergiorgio, ci facemmo una canna, io per affrontare l’evento, lui per solidarietà. Piergiorgio detto anche “Mele” mi fece da autista, testimone e pianista, suonando il brano “Per Elisa” di Beethoven mentre facevamo l’entrata nella chiesa di Colà, con l’aria di sdegno dipinta sul volto della maggior parte delle persone presenti e benpensanti intervenute al matrimonio, parenti compresi.
I primi mesi dedicati alla Dea “Eroina” furono meravigliosi con viaggi in universi mai visti da nessun essere umano e che duravano ore ma sembravano secoli. Bastava uno schizzo e ti assicuravi uno sballo di un intera giornata in paesi sconosciuti dove tutto era soffice e luccicante, la gente allegra e premurosa. Passavi da un luogo all’altro come una piuma portata dal vento posandoti delicatamente a terra per assaporare l’incanto del posto. Era un sogno infinito, un viaggio interminabile al limite del tempo e dello spazio. Si volava nell’universo si viaggiava nel tempo, nel remoto passato e nell’indistinto futuro. Quando tutto svanì solo rimase nella mente la voglia di un altro viaggio. Fu l’inizio del lungo percorso e lì capimmo perché alle persone piaceva cosi tanto l’eroina.

I viaggi meravigliosi durarono poco (qualche mese), poi fu l’inferno: Passavamo giornate intere raccogliendo soldi (anche 500.000 lire al giorno) che bruciavamo ai piedi della mitica Dea, anzi, al suo galoppino; ho aspettato intere giornate al freddo che arrivasse qualcuno con una dose; ho visto figli prendere per il collo madri e madri disperate che denunciavano i loro figli. Vivevamo giorno per giorno e l’unico obbiettivo erano i soldi per allontanare, se pur momentaneamente, la scimmia. Ad un certo punto Marina mi lasciò (o io lascia Marina) cosi, senza parole, aggiungendo dolore a dolore. E’ quì che iniziai con gli “Speedball”, combinazione di cocaina e eroina: La prima ti dava la botta; la seconda la teneva. Andò avanti per ancora per anni finchè una sera, strafatto nella mansarda che era stata il nostro nido d’amore, urlai a gran voce tutta la mia rabbia e la paura. Il giorno dopo partii con la 2CV, un sacco a pelo, tre bottiglie di Whisky e Cristina. Tornai 3 mesi dopo senza la più scimmia, che non rividi mai più.

Il matrimonio con Marina non durò a lungo ma facemmo in tempo a mandare mezzo in rovina i miei genitori (abitavamo con loro in una grande villa e gestivamo un bar al piano terreno della casa; più che gestire il bar, gestivamo gli incassi: da poche lire alle due trecento mila al giorno, dopo nemmeno un anno), a disinteressarsi completamente del sesso, ad essere invisi da tutto il paese e mia moglie a diventare un’abilissima ladra nei garndi magazzini. Io arrivai a minacciare i miei genitori per i soldi che mi dettero purche me ne andassi. Ma dove? Tutti i santi giorni dovevamo fare circa 50 km per andare all’appuntamento col pusher che, per non rischiare, s’infilava nei boschi.


Trascorremmo cinque anni d’inferno, senza mai fare una vacanza, sempre dietro il bancone del bar per fare incassi per la roba. Cinque anni di vita miserabile immersi nell’eroina senza vedere spiragli di luce. Tentammo insieme più di una volta di toglierci la scimmia concordando, con i rispettivi genitori le modalità: la prima fu una sperduta pensione sui Lessini dove con la sola forza di volontà (?) dovevamo cercare di smettere. Ma vinse, ovviamente, l’eroina. Ai primi brividi da astinenza prendemmo la macchina e filammo in quel di verona per procurarci la dose e qui fini il primo tentativo. Il secondo tentativo ci vide a San Vito di Cadore, in una bellissima casa messaci a disposizione da amici, era il mese di aprile, arrivammo che stava per imbrunire, entrammo e incontrammo “desolazione”, non so se per caso o per le nostre condizioni. Ci mettemmo a letto coperti da diversi piumoni e passammo la notte con brividi e contorcimenti vari e all’alba eravamo  già in macchina, anche stavolta era andata male; il terzo ed ultimo sforzo, più decisi che mai, partimmo per il Marocco, ovviamente ben forniti, arrivati a Ceuta, consapevoli di quanto ci stava per accadere, rimanemmo come allocchi, storditi. Poche ore dopo decidemmo di ripartire e senza mai fermarsi arrivammo ad Amsterdam, e andammo direttamente a Vondelpark per una dose.

Ci dissero in seguito che nn potevamo smettere insieme che per forza di cose ci si doveva separare e smettere ognuno per i fatti suoi.

Dopo la separazione fu anche peggio.
Con l'aiuto di mai madre, santa donna, presi seriamente in considerazione l'idea di disintossicarmi, entrando in diversi ospedali, sia nella mia città natale che in altre strutture, ma finiva sempre allo stesso modo: fuggivo in preda al panico.
Nei luoghi dove si comprava la roba conobbi tutta una serie di personaggi da romanzo giallo: Monica, El Tenca, Tesini, El Lota, Spadina, tutti tossici e spacciatori. Ho passato giornate intere con brividi, vomito, male agli arti e allo stomaco aspettando che arrivasse qualche grammo di roba; ho fatto centinaia di chilometri per una voce nell’aria che diceva che nel tal posto c’era roba; ho provato paure indicibili quando anch’io, per forza di cose, dovetti a mia volta fare il pusher con i tossici sotto casa che mi lanciavano sassi alla finestra alle due del mattino perché erano in astinenza e volevano la “roba”.

Fu in questo periodo che arrivò la parte peggiore della mia vita da tossico. Frequentando le varie piazze dove si spacciava conobbi “i gemelli” de Valgatara.
...continua

1 commento:

  1. Spero che la mia presenza nella tua vita abbia fatto un po' la differenza. Alba

    RispondiElimina

Meditazione

La meditazione è la base indispensabile per ogni cammino di conoscenza per la vita stessa. Ogni fede, ogni filosofia ne parla da sempre.  ...